NELL’ARCHIVIO DI SORRENTINO
di Massimo Di Paolo – La sensazione che lascia è come quella di una finale olimpica dei quattrocento metri piani. Il giro di pista: la gara più dura corsa quasi tutta in apnea. È la stessa sensazione che si vive a fior di pelle quando si guarda per la prima volta Parthenope, l’ultima opera di Paolo Sorrentino. Il film: come un atleta cubano che parte a tutta dopo il colpo di pistola, appare potente, inebriato di bellezza, di forza mentre corre sulla prima curva.
Esagerato per intensità, luce, fotografia, rimandi narrativi, simbologia e storia che più napoletana non potrebbe essere. Esagerato a tal punto che, dopo una prima parte a ritmo superlativo per composizione e per ogni altra cosa, inevitabilmente tende a perdere colore, ritmo, rasentando la monotonia, quasi a spegnersi. La trama inciampa, la fluidità si riduce, gli eroi si confondono e il dubbio pervade lo spettatore. Il pensiero non detto: non è all’altezza del “È stata la mano di Dio”. Poco tempo, un singhiozzo passeggero, poi si riapre per diventare l’opera straordinaria che ben composta rimarrà fino alla fine. Con un finale mozzafiato, nel senso che lascia a fiato sospeso, dove ogni cosa torna e prende il proprio posto, dove la matassa si snoda definitivamente, i significati si ricompongono, si distendono. Opera di straordinaria bellezza perchè di bellezza tratta. Perfino la Napoli degradata, dai personaggi scanzonati, dalle maschere deformi della povertà nascosta in rituali, costumi, manierismi da bassifondi, diventa bella nella magnifica rappresentazione scenica. Non potrebbe essere diversamente perché il film parla e narra della ricomposizione interiore che tutti, ognuno con il proprio destino, con i propri tempi, con le proprie condizioni fanno nella vita. Quelle recitate nel film sono i tentativi di salvezza della propria storia personale fatte attraverso gli altri, attraverso chi ci resta accanto e attraverso chi, in qualsiasi modo, ci abbandona. Una storia di giovinezza Parthenope, che non può che descrivere l’animus che evolve attraverso lutti, sofferenze nascoste, incertezze, alleanze e fortunati incontri che indicano la via. Pensando alla figura del Professore interpretata da Silvio Orlando, con una recitazione indescrivibile, viene da citare Gustavo Zagrebelsky in “mai più senza maestri”.
Identità infrante le storie contenute nel film, quella della protagonista come quelle di tutti i personaggi che scorrono nella narrazione. E la bellezza di una città ruffiana e un po’ puttana rappresenta quella dei molti, che la usano per nascondersi alle viltà, ai cinismi, ai tradimenti. Storia psicologica meravigliosa e difficile fatta da specchi spezzati e ricordi scomposti, di rammarichi, rancori, delusioni che spingono la bella Parthenope ad andare via per cercare una ricomposizione, una dimensione di concretezza, l’unica utile per rimarginare e dare senso. Percorsi di vita barocchi e processi emotivi complessi quelli rappresentati da Sorrentino, con un evidente e dichiarato processo identificativo dello stesso autore. Il miglior Cinema italiano non facilmente esportabile per significati, epoche, simbologia e rimandi culturali da paese mediterraneo. Straordinario il cast e la recitazione messa in scena con un Dario Aita in crescita continua, Silvio Orlando che lascia senza parole e lei, Celeste Dalla Porta nelle vesti di Parthenope, una sorpresa per bravura e padronanza recitativa. Bella assai, giovane e matura nello stesso istante, seduttiva che di più non si poteva. Stefania Sandrelli oltre ogni limite nell’ultima scena che chiude la narrazione. L’ultimo fotogramma che rappresenta il compimento, il cammino concluso, la pacificazione con il perdono. Ogni cosa al proprio posto, come l’archivio della propria anima che l’autore, con Parthenope, ha voluto probabilmente sigillare.