SPECCHIO DELLE MIE BRAME, UCCIDO E POI VADO AL MARE
di Massimo Di Paolo – La storia degli adolescenti, in questi ultimi quindici anni di “era moderna”, non potrà mai essere letta per capitoli. Il primo che precede il secondo, e così via fino alla fine. Non si può perchè nelle testimonianze dei giovani non si rintraccia una trama, non si racconta una storia, e per avvicinarsi alla comprensione del mondo delle caratterizzazioni giovanili di oggi, è necessario stendere un filo per orientarsi e seguirne fedelmente l’intreccio. Questa complessità rende difficile stabilire quale lente adottare, dove porsi come osservatori per mantenere la lucidità necessaria, per capire senza assumere posizioni moralistiche che affogano nella retorica. Quando un giovane uccide crea allarme, coinvolge di più e per più tempo: fa sentire la paura ed è allora che i processi della mente aiutano a rimuovere, a dimenticare, a negare in fretta. Soprattutto quando i fatti di sangue e di violenza sono lontani. Ma Pescara è dietro l’angolo, è casa nostra. Pensare che anche da noi, nell’Abruzzo “Forte e gentile” di Primo Levi, nella terra delle tradizioni popolari antiche, nel Paese di “Fontamara” e del brodetto vastese possa accadere che due giovani colpiscono con 25 fendenti un loro pari fino alla morte, ha scosso non poco. Eppure era una tragedia covata, che poteva essere rappresentata ovunque nelle nostre, “piccole” città abruzzesi. Il copione era pronto da tempo, solo il destino improvvisamente, ha scelto il palcoscenico. Poteva succedere ad Avezzano, Sulmona, L’Aquila, Chieti o in una delle tante dimore dell’apatia, dell’abbandono dei giovani, del disimpegno, dell’opportunismo. In quegli androni di città che vivono nel passato, citano libri dei ricordi, allori, opere vecchie: senza curare la dimensione dell’incertezza, del futuro imminente, della noia, dell’ambivalenza permanendo nella melma del perbenismo e del nascosto. Il tono, i linguaggi, i comportamenti violenti le aggressioni sono presenti costantemente. La “movida” panacea del decadimento urbano e sociale, li nutre con alcool, stupefacenti, notte, desertificazione familiare e istituzionale con un senso del proprio valore perennemente da confermare con il gesto, con l’acting out pronto ad esplodere con aggressività contro il portatore di debolezza, di diversità: contro lo sconosciuto. Molte realtà istituzionali non assumono responsabilità ed impegni, insistono ad omettere il problema o ad edulcorarlo, tranne rare voci che da molto gridano l’allarme per la condizione giovanile in rapida mutazione sottovalutata per incapacità, paure e disimpegno. La facile pedagogia della integrazione e della comprensione manca di interventi, richieste, regole, impegno: di responsabilità. Nel tempo ha spianato la strada al “laisser faire”, all’assenza di argini, prima in famiglia, poi nella scuola e subito dopo nel tessuto sociale compromesso e disimpegnato. Fragilità pericolose in casa e fuori: spesso, e spesso si tace, o non si sa che fare. Autostime incerte ed emozioni non sentite, coperte da sentimenti di grandiosità, da povertà relazionale, da sensazioni che tutto gli sia dovuto, dalla convinzione che i loro successi siano unici al mondo, con un costante bisogno di ammirazione e conferma contrapposto ad una esagerata percezione del fallimento quando qualcosa non va per il verso giusto. Sentimenti di disprezzo e di indifferenza retti da un’esagerata opinione di sé, la matrice portante del delitto pescarese. Uccido per rendere riconoscibile il mio valore la mia grandiosità. Non è la natura che pianta questi semi ma le strutture sociali. E l’organizzazione sociale del consumo, del profitto, dell’apparire che rende l’aggressività priva di rimorsi, priva di quei processi che nutrono l’empatia e i sensi di colpa. Quel sacrifico umano non avrebbe avuto senso se non si poteva esporre, se non lo si poteva rendere noto. Andava socializzato come una bevuta, una rissa, una gradassata perchè i giovani “con le palle” hanno diritto ad avere un gradino di fronte agli altri, hanno diritto ad una deferenza e subordinazione. Ed ecco apparire lo spartiacque tra classi sociali e caste familiari pescaresi e non. Nelle città borghesi, incurabili, sono sempre esistiti i “rampolli”. Pescara è uguale a tante altre cittadine nostrane, dove non esiste contaminazione e uguaglianza, dove le scuole sono state, e restano, per benestanti e per poveri. Dove tu che sei diverso da me rimarrai uno sconosciuto uno “scarto” parafrasando Bauman. Pescara è sconvolta due sedicenni uccidono Thomas e tutto appare irreale. Irreale perché? Perchè fa cronaca, rompe l’aggregato dei ricchi facoltosi, crea il bisbiglio che piace sotto l’ombrellone, o forse perché ci permette di sentirci giusti, tutelati puliti: fuori da “quei fatti”, immunizzati dal passa parola, illusi di far parte di famiglie perbene. Eppure il dramma avvenuto spinge ad oltrepassare la cronaca, spinge a riconoscere gli egoismi pubblici, addensati soprattutto in realtà meridionali, dove ogni famiglia vive la sua crisi con regole proprie, sempre più piccole, con separazioni, conflitti, disimpegno e soprattutto con copioni spesso ai limiti della morale educativa. Poi c’è la Scuola su cui si riversano speranze obblighi e doveri. Ma il sistema non regge anchilosato su un’organizzazione che non cambia o non si vuole fare cambiare, che non riesce ad essere al passo dei nuovi mutamenti. Con molti dirigenti impauriti e spesso omertosi non capaci di assumersi responsabilità e nuovi doveri di governo. Insegnanti spesso alla ricerca di serenità, routine, riluttanti verso le richieste sociali, appiattiti in una condizione professionale priva di differenziazione e merito. Raramente mentori, spesso nostalgici verso una scuola che non esiste più. E infine le Istituzioni territoriali e politiche. Non si ricorda da decenni un intervento sistemico di politiche giovanili se non in rare regioni italiane. Nei comuni i “piani sociali” sono di fatto affidamenti a strutture terze, i fiumi di denaro del PNRR non sono stati coordinati sui territori per far sorgere sistemi avanzati per servizi ai giovani – le scuole hanno fatto le liste della spesa, i Centri di Aggregazione abbandonati, gli oratori in decadimento; urbancenter, palestre digitali, istituti ad indirizzo professionalizzante, assenti– i centri di salute mentale non riescono ad attuare piani di prevenzione divergenti, i Sert sono stracolmi e in difficoltà, i sistemi di giustizia minorile al lumicino. Non se ne parla mai, tutto è sotto-silenzio ed è questo veramente irreale. “Contro i Giovani” il libro di Tito Boeri e Vincenzo Galasso offre spunti per capire i paradossi che con diverse modalità, armano la mano e ratificano la violenza rendendola velina trasparente.