RICORDO DI GIUSEPPE PROFETA
di Andrea Giampietro
Lo scorso 6 gennaio è venuto a mancare, alla soglia dei cento anni (era nato ad Arsita, nel teramano, il 30 aprile 1924), Giuseppe Profeta, professore ordinario di Scienze demo-etno-antropologiche nelle Università della Calabria, dell’Aquila, di Chieti e di Teramo. Allievo del folclorista Paolo Toschi, amico e collaboratore di Alberto Maria Cirese e Giovanni Battista Bronzini, Profeta aveva dedicato il maggiore e il miglior tempo della sua attività di ricercatore al recupero e allo studio delle tradizioni popolari (Bibliografia delle tradizioni popolari abruzzesi, 1964; Canti nuziali nel folklore italiano, 1965; Un culto pastorale sull’Appennino, 1993; Il serpente sull’altare. Il patronato antifebbrile di San Domenico di Cocullo e la sua metamorfosi antimorso. Ecologia e demopsicologia di un culto, 1998; etc.) con un’attenzione particolare alla poesia dialettale abruzzese (Letteratura popolare e letteratura dialettale con un saggio sulla poesia di Modesto della Porta e sui canti nuziali abruzzesi, 1962; Poesia e popolo nell’opera di Modesto Della Porta, 1964). Dimostrò la sua passione per la poesia in vernacolo fondando, insieme a Giovanni Pischedda, l’Istituto dialettologico d’Abruzzo e Molise “L. Brigiotti”, con sede a Roseto degli Abruzzi; presiedette la giuria del Premio “Teramo” di poesia dialettale e del Premio “Vernaprile” (tra i giurati c’era l’amico Cosimo Savastano). A lui si deve il rinvenimento degli otto volumi manoscritti e inediti della Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia dell’etnologo Giuseppe Pitrè (poi edita a Palermo). Da più di cinquant’anni era deputato della Deputazione Abruzzese di Storia Patria.
Giuseppe Profeta capitò nella mia vita dopo la scomparsa del Prof. Ottaviano Giannangeli al quale era legato da un profondo rapporto di amicizia. Quando gli telefonai la prima volta, Profeta mi raccontò che si rivolgeva all’amico peligno chiamandolo “Aterno Patre”, in riferimento alla poesia giannangeliana Preghiera degli esuli abruzzesi («Nei deserti e nei canyons, nelle sierre, / nelle lande lucertole dogliose, / nelle foreste boa, nei fiumi cocodrilos, / nelle miniere talpe, ti preghiamo. / Dacci il pane, Signore, in ogni lingua. // […] // La parlatura, abietta mezzalingua, / ridacci, Aterno Patre, ti preghiamo») ch’egli stesso aveva favorito, in qualità di giurato, al Premio internazionale di poesia “Roseto”. Quando seppe del mio impegno nel sistemare l’archivio e la biblioteca di Raiano, Profeta esultò affermando che lui stesso stava lavorando al riordinamento dei suoi libri e delle sue carte per non lasciare incombenze agli eredi (sarebbe poi riuscito a donare i suoi oltre 15.000 volumi alla Biblioteca “M. Delfico” di Teramo). A quel primo contatto telefonico seguirono molti altri incontri, soprattutto per via epistolare (sua figlia Nicoletta, professoressa di filosofia, era la paziente segretaria che si occupava di trascrivere quanto lui, a causa del drastico abbassamento della vista, era costretto a dettare).
Quando si rivolse a me col titolo di “professore”, ci tenni subito a precisare che non soltanto ero sprovvisto di quel titolo ma addirittura della laurea; tuttavia la sua estrema dolcezza, e una certa stima per i miei risultati ottenuti fuori dall’ambito accademico, lo portavano a chiamarmi con epiteti come “Professore vero” o “Professore ideale di una Università superiore”. Questo a dimostrazione della sua profonda squisitezza d’animo, del suo spirito vitale, del suo entusiasmo da puer; le stesse qualità che aveva profuso nella sua lunga attività di studioso. Con indomito entusiasmo infatti si riaccostò, dopo quasi cinquant’anni, ai temi trattati in La logica del recipiente. Ricerca su funzionalismo e antropomorfismo vascolari (1974), opportunamente compendiati e approfonditi in due volumetti, L’acqua e il vaso nella vascolarità universale (2021) ed Empire-vuotare (2023), entrambi pubblicati dalla casa editrice ortonese Menabò. Molte furono le nostre discussioni sui temi del sistema vascolare che definisce tanto la dinamica dell’orbe terracqueo quanto quella degli organismi, sulla simbologica e sull’antropomorfismo dei vasi e dei recipienti. A queste sue nuove pubblicazioni dedicai due recensioni («Le devo dire che, fra le tante recensioni pervenutemi, quella sua mi appare acuta e convincente. Così non posso che rallegrarmi di avere un lettore serio e intelligente», mi scrisse il 18 giugno 2021 dopo aver letto le mie riflessioni su L’acqua e il vaso nella vascolarità universale), entrambi apparse sulla rivista genovese “Xenia”. Gli piacque particolarmente il mio accostamento dell’episodio che aveva dato origine alla sua ricerca (la vista di un boccale riempito d’acqua da un bicchiere) alla degustazione della madeleine intinta nel tè che aveva svelato al protagonista della Recherche il meccanismo psichico della “memoria involontaria”.
Tra i diversi libri di cui mi omaggiò (ad esempio Bibliografia della cultura tradizionale del popolo abruzzese: 1486-2003, 2005, riedizione aggiornata, con la collaborazione di Enrico Di Carlo, del suo precedente Bibliografia delle tradizioni popolari abruzzesi), posso annoverare una vera chicca: una sua raccoltina di poesie giovanili, La vita è un tenue filo (1952). Cominciavo così la mia lunga lettera di ringraziamento: «Una curiosa sensazione tattile mi ha fatto credere di percepire, tra le pagine che andavo sfogliando, tutta la genuina e sofferta vitalità della Sua giovinezza». Al di là del linguaggio forbito, dei rimandi classici (combinati ad echi leopardiani e ungarettiani) e di certe finezze retoriche, trovavo nei suoi versi un sincero sentimento poetico che, oltre alle malinconie esistenziali giovanili, lasciava spazio anche a slanci di poesia civile. La reazione del Professore ai miei apprezzamenti critici per i suoi versi fu entusiastica: «… ti dico solo che mi son fatto stampare e ingrandire tutta la tua lettera per rileggerla e apprezzare il tuo ingegno e il tuo affetto». Inoltre nell’archivio giannangeliano trovai una copia del “Gazzettino Atriano” del 21 ottobre 1950 che riportava due sue poesie, una delle quali Profeta non ricordava.
Lo andai a trovare nella sua abitazione teramana il 4 novembre 2022, accompagnato da mio padre («il grande architetto, tuo padre protettore», come lui lo chiamava). Checché ne dicesse a ogni nostra telefonata (le ultime volte esordiva affermando «Ormai sono dimidiato», tanto da spingermi a ribattezzarlo “il Profeta dimezzato”), il Professore conservava una straordinaria agilità, la stessa che quando era preside sfoggiava davanti agli alunni arrampicandosi più volte di seguito sulla corda della palestra. Mi mostrò un appartamento, oltre a quello in cui abitava, interamente adibito a biblioteca: una serie infinita di scaffali che contenevano maggiormente volumi di antropologia culturale ma in cui ce n’era anche uno dedicato ai libri dell’amico Giannangeli, come lo studio critico La bruna armonia di Camerana (1978) che gli era stato donato entusiasticamente dal suo autore dopo aver scoperto con sorpresa che Profeta ricordava a memoria dei versi di Camerana (poeta rilevante della Scapigliatura ma certamente poco noto). Scendemmo anche nel suo garage dove teneva conservata una poderosa collezione di vasellame, di tutte le specie, di tutte le forme, di tutte le provenienze. La passione per il recipiente, inteso come struttura che accoglie e ridona alla vita, aveva segnato metaforicamente la sua esistenza di uomo e di studioso. A conclusione della visita, invitai Profeta a intonare insieme una delle melodie napoletane che più amava, I’ te vurria vasà, e che accennò con quel caratteristico filo di voce in cui pure sapeva infondere tutta la grazia del suo spirito.
Quando l’altro giorno sua figlia Nicoletta mi avvertì della scomparsa del Professore, forse non avrei dovuto sorprendermi; la sua vita ormai si andava affievolendo come nella poesia Lu tisiche dell’amato Della Porta: «Avete viste ma’ nu lumicille, / che cià remaste sole lu stuppine / e sèquet’ a ardì’, ma fine fine, / e manne ogne tante na scintille // pe ffà’ sapè ca l’ojie sta a la fine?». Era un’immagine, quella del lumicino che va spegnendosi, evocata dallo stesso Profeta ma che io mi rifiutavo di accettare, invitandolo a pensare alla fiamma del suo spirito che non smetteva di ardere; una fiamma che, oggi più che mai, resta viva a indicarci un cammino di etica culturale oltre che umana doveroso da seguire.