HERE WE ARE, BABY!

di Massimo di Paolo – Era semplicemente un buon giocattolo. La definivano “the good toy” quando la presentarono come la bambola di tutti e per tutti: in Inghilterra, in America, nel mondo. Barbie, la bambola, magra longilinea, perfetta nei tratti, dai giusti e studiati equilibri che miscelavano sessualità e volto angelico. Di fatto, in modo subliminale, narrava e imponeva ciò che ogni bambina, ragazza e donna doveva rappresentarsi. Nasceva un “movimento” fatto di lineamenti, bellezza, perfezione, status, consumi, identità e sogno. Nasceva il mercato dei bisogni indotti, nasceva l’immagine a cui il femminile doveva accostarsi, la donna del successo, dell’indipendenza e del potere. Nasceva quel drammatico copione che, tra sorrisi, feste di compleanno, babbi natale, creava in ogni bambina e ragazza e donna il “limite di rispecchiamento” che la faceva sentire adeguata o meno. Dopo decenni di vendite, di studi, di buonismo e di marketing raffinato, cambia la confezione e arriva al cinema un’opera tormentone di Greta Gerwig – non l’ultima tra le sconosciute – che compie un’operazione raffinata e complessa. Partendo dalla struttura del mito, ad uso di scrittori di narrativa e di cinema, propone un viaggio che rende, una bambola di plastica, un’eroina. Barbie, 100 milioni di dollari il budget per il film, in sala dal 20 luglio. Nella sola prima settimana negli USA ha incassato 155 milioni di dollari.

Un’operazione tra psicanalisi e leggi di mercato che stanno rendendo, il film Barbie, una grossa operazione dai connotati antropologici ed educativi. Storia di progettazione e ripensamenti iniziata nel 2009. Una live action che ha reso Barbie umana, calandola nel mondo reale dove non tutto è semplice, perfetto, luccicoso e facile. Le difficoltà, le imperfezioni, i problemi del vivere finiscono per renderla più accessibile e, pertanto, di nuovo amabile. Cast di rappresentanza e ben adeguato con Margaret Robbie e Ryan Gosling nei panni di Barbie e di Ken, affiancati da bellezze e recitazioni all’altezza del compito. Recensioni alle stelle, botteghini da attesa, film che tenta di parlare a un pubblico di ogni età e sesso. Il transfert più importante nell’osservare il film, è dato certamente dal rispecchiamento che spinge a riflettere su sé stessi e sulla figura di donna attraverso una bambola degli anni ‘50. Un messaggio di indipendenza che rivaluta i limiti e le criticità propri dell’essere umano. La complessità, di ogni individualità, nascosta anche nei tratti, nei costumi e nell’immaginario superficiale. Sconsigliato: per la banalità che nasconde, per la retorica, per la nenia che decanta, per la potente operazione commerciale a cui risponde. Per il rispetto dovuto ai “viaggi” duri e di sofferenza che la realtà impone a milioni di donne, rendendole straordinarie.

In attesa della bomba. Uscirà il 23 agosto – Oppenheimer – film atteso, decantato, già amato da critici, appassionati, storici e cultori. Genere biografico, storico e drammatico, con un cast di straordinario valore e rango, a partire da Christopher Nolan, regista e star, che ha diretto una impressionante squadra di Principi del cinema: Cillian Murphy come protagonista, insieme a Robert Downey, Matt Doman, Emily Blut, Florence Pugh. Colonna sonora di Ludwing Görausson.

Pellicola che narra la bibliografia di un nome leggendario per gli studi della fisica quantistica, scelto dall’amministrazione Roosevelt come capo del gruppo più largo e importante nella storia della scienza, che portò alla realizzazione e all’uso della bomba atomica. Una film-narrazione per un periodo storico che ha cambiato la storia dell’umanità. Ma anche un’opera cinematografica che narra di una personalità straordinaria, di un genio estroverso e imprevedibile che diventerà, suo malgrado, attore di una complessa storia di vita: prima ricercato e osannato dalle più importanti e note università del mondo, poi scelto, unico tra i migliori, da un Presidente degli Stati Uniti d’America, poi portatore di un marchio indelebile che lo trasformò in paladino per la messa al bando dell’uso dell’atomo come strumento di morte, ed infine, nel 1954, accusato di favoreggiamento, marginalizzato, escluso, etichettato come reietto.

Una storia descritta nel libro vincitore del Premio Pulitzer, nella nuova edizione edita Garzanti per l’Italia, Oppenheimer, di Kai Bied e Martin J. Sherwin. Dice del film Richard Roeper del Chicago Sun-Times: “Magnifico, uno dei migliori film del XXI secolo”. Lo aspettiamo.