CENTENARIO, L’ITINERARIO POETICO DI OTTAVIANO GIANNANGELI
Il 20 giugno 1923, precisamente cento anni fa, nasce a Raiano Ottaviano Giannangeli. Sua madre, Lola Fabrizi, è di Pratola Peligna mentre suo padre, Attilio, è nativo di Secinaro anche se, dopo la prematura scomparsa del genitore, si trasferisce nel paese materno, Raiano appunto, sotto l’ala protettiva dello zio, Benedetto Zitella-Arquilla, medico condotto. Certamente questa molteplicità di radici, tutte convergenti nel “peligno agro”, induce Giannangeli ad abbracciare la cultura abruzzese nella sua pienezza. Del “plurilinguismo” praticato in famiglia e della sua decisione di non affidarsi esclusivamente, come poeta, al dialetto raianese ma anche a una koinè abruzzese (riconosciuta nella parlata di Chieti), egli scrive: «Prendiamo la parola cuore, semantema sentimentale-emotivo per eccellenza: mio padre pronunciava còre, mia madre ed io: córe. Rispettivamente ju còre, lu córe, je córe. Se mia madre ed io eravamo uniti nel sostantivo, ci differenziavamo a nostra volta nell’articolo. Come avrei fatto a non essere tentato di rivolgermi a una koinè “omologante”?».
Eppure il suo esordio nella poesia in vernacolo – quattro componimenti raccolti sotto il titolo di Rentuocche de je paieise meie (1945) – non può che essere nel dialetto nativo. A tal proposito Giannangeli riconosce due precisi modelli: «Per quanto riguarda la mia scrittura in pretto raianese, dirò che ho avuto due insegnanti: la prima, a livello famigliare, è la mia nonna paterna Marianna Zitella-Arquilla (1868-1951) […]; il secondo è il poeta raianese Umberto Postiglione (1893-1924), al quale mi sono a più riprese interessato». Da sua nonna infatti eredita un patrimonio di motti, versi e canti popolari (raccolti e commentati nel volume Poesia popolare e proverbi abruzzesi, Pescara, Nova Italica, 1991) da cui cerca di ricavare del materiale poetico, ricollegandosi non soltanto alla lingua degli avi ma anche al sentimento collettivo della sua gente. Che sia dunque per dilettare i compaesani in occasione di un evento come la Sagra delle Ciliegie (è lui a fondare l’evento canoro-folcloristico nel 1946 e ad organizzarlo fino alla metà degli anni Cinquanta, salvo poi parteciparvi regolarmente leggendo i suoi componimenti in versi) o per approfondire quei temi intimi e morali che richiedono al lettore una più attenta meditazione, Giannangeli non dimentica il suo interlocutore, il popolo, lontano da ogni intento demagogico o qualunquistico. In appendice alla raccolta di versi Poesia come sedativo (Pratola Peligna, Vivarelli, 1985), precisa: «C’è una poesia (e una poetica) che vuol essere raffinata, rarefatta, intima, astratta, mi spingo anche a dire calligrafica; e ce n’è un’altra in cui voglio riconfondermi col popolo, […] cerco me stesso nel popolo, come un viaggio alle origini, sì, ma senza rinunciare al processo di affinamento che ho acquisito attraverso una cultura personale». Nel suo “libro-arca” (espressione che Emerico Giachery usa per definire la raccolta Da mó ve diche addìje del poeta ortonese Alessandro Dommarco, legato a Giannangeli da un profondo rapporto di amicizia), Lu libbre d’Ottavie (Sulmona, Di Cioccio, 1979), l’autore raianese non soltanto include tre tempi della sua attività personale e letteraria ma ben tre registri linguistici: il dialetto raianese, quello peligno e quello abruzzese: tre livelli complementari eppure non interscambiabili, in ognuno dei quali Giannangeli dimostra tutta la versatilità delle sue doti espressive. Nell’ultima sezione del libro la parlata nativa viene adoperata con eguale efficacia nei versi scherzosi di Le malenomere (sul costume paesano di affibbiarsi a vicenda i soprannomi: «da che munne è munne / la gente ecche se chiame a malenomere»), nell’elegia dedicata al padre, Papà, reuienne abballe («Papà, reuienne abballe / cumma la sere che nsapiue chiù / andò fermarte, a chi / dà j’uteme salute, / l’utema rise, l’uteme parole»), e nell’invettiva contro gli assassini di Aldo Moro, Zappe, cafeune, zappe… («Chi te la dà la forze, Italia mé, / Italia sfurtunate, Italia amare, / andò s’è stese na cuperta scure / che ha recuperte belle cannauine, / tutte le terre sementate a rane»).
Anche la poesia in lingua di Giannangeli è fortemente “dialettale”. Questo sin dalla prima importante raccolta di versi, Gli isolani terrestri (Lanciano, Quadrivio, 1958), in cui luoghi (dalla “fontana di Capodiforma” alla “Collina di Castelluccio”, dalla scuola elementare nel Convento degli Zoccolanti alla “Contrada dell’Intera”, fino all’imperante Maiella), personaggi ed eventi della sua infanzia sono protagonisti di un racconto ancestrale che pure ha una precisa connotazione storico-sociale (si fa spesso riferimento al contadino che «ha bisogno / d’imprigionare il sole di giorno / per mangiarselo nella notte») se non addirittura antropologica. Anche la terminologia si rifà talvolta ad espressioni gergali come quando, sempre parlando del contadino, scrive che lui «s’è addormito presto», adottando in tal modo l’abruzzese addurmirse.
In Canzoni del tempo imperfetto (Lanciano, Quadrivio, 1961) il tema dell’infanzia e della vita agreste è dominante: nella sezione che dà il titolo al libro si ricordano il vecchio pianino che la «domenica / mattina attaccava a cantare» davanti alla scuola o la festa paesana della Madonna delle Grazie con «la coda dei fedeli» che «si pigia sulla via nazionale»; vi troviamo anche le canzoni con cui i contadini scandiscono sia la loro vita quotidiana che quella stagionale, come le «Canzoni di mezzogiorno / sul messidoro incurvate e sui mannelli», le «Canzoni del lavatoio / […] nell’orto dei frati» o le «Canzoni di vendemmiatrici / per gli interminabili filari».
Nella sezione di apertura di Un gettone di esistenza (Milano, Edikon, 1970), intitolata Tiempo perdido, tiempo querido (l’influenza della poesia iberica – soprattutto quella di García Lorca – caratterizza fortemente la prima stagione dell’opera giannangeliana), l’autore segue lo stesso percorso della raccolta precedente: valga come esempio la Preghiera degli esuli abruzzesi, vincitrice del II Premio internazionale di poesia “Roseto” (1961), una lirica sapientemente cadenzata che si muove tra l’invocazione liturgica e il canto epico: «Nei deserti e nei canyons, nelle sierre, / nelle lande lucertole dogliose, / nelle foreste boa, nei fiumi cocodrilos, / nelle miniere talpe, ti preghiamo. / Dacci il pane, Signore, in ogni lingua». In questi versi Giannangeli non soltanto si concede un’incursione dialettale («Ti manderemo con tutto lu core / dorata come spighe una canzone») ma anche un impasto plurilinguistico che evoca le difficoltà e la confusione sofferte dai conterranei in esilio: «… Le soleil / se lève. Many more years. Hablamos mal / español. – Italiano?… Muchos niños… – / Sangue della Maiella, molti figli». Se da un lato l’emigrazione non permette possibilità di scelta, «Dacci il pane, Signore, in ogni lingua», dall’altro non riesce a placare l’auspicio di un ritorno in Abruzzo e al suo dialetto, «La parlatura, abietta mezzalingua, / ridacci, Aterno Patre, ti preghiamo». Nella stessa raccolta troviamo un altro importante registro tematico della produzione giannangeliana che è quello della “metapoesia”: la poesia si rivolge a sé stessa, diventa specchio delle dinamiche che regolano la scrittura (dai moti dell’ispirazione alle speculazioni tecniche) e riflette il ruolo del poeta a contatto con la modernità. Non solo: il tono epigrammatico risulta particolarmente incisivo e l’ironia diventa ancora più chiara negli obiettivi da colpire. Ne è esempio la poesia che dà il titolo alla raccolta; in questi versi l’esistenza è vista come uno sbalzo da una dimensione all’altra, come un concitato rimando tra entità terrestri e ultraterrene, tra inganni e convincimenti, tra folclore e cosmologia: «E c’è chi si taglia la vita, / chi le si avvolge ben forte, / chi cova la speranza ardita / che sia l’uomo all’uomo consorte, // da sedere a una tavolata / tutti insieme. Poi: l’interferenza, / o cessa la telefonata… / Altro gettone, altra esistenza…» // […] // Ti avrà acciuffato altro universo, / catapultato alla centrale / delle centrali, converso / all’essere a cui tutto sale. // Sarai disceso nella terra / e dal moto che serra e disserra / rifatto forse semenza, / gettone d’altra esistenza».
Questo stesso dualismo tematico ed espressivo prosegue nelle successive produzioni poetiche, da Poesia come sedativo (1985) a Tra pietà e ironia ed epigrammi (Manduria, Lacaita, 1988), da L’Italia sotto sequestro (Pescara, Nova Italica, 1990) a Litanie per Marin e altri versi in abruzzese (Udine, Campanotto, 1994). Fa eccezione Arie de la vecchiaie (Pescara, Nova Italica, 1989), “poemetto” in dodici stanze che, affidato a quella koinè abruzzese in cui il poeta ha trovato ormai una sua piena naturalezza, si distingue per il suo carattere puramente lirico e per l’indovinata commistione tra nostalgia del passato e presagio della fine: «Fronne de pioppe appujjate allu mure / de lu cummente, fiene faveciate / che remeneve piane allu paese, / fracecore che deve lu ’ncanteseme, / respire de la morte prufumate». Sulle pagine del “Sole 24 Ore”, il poeta milanese Franco Loi (prima vincitore e poi giurato del Premio “Lanciano” che Giannangeli e Giuseppe Rosato fondano nel 1966 e che organizzano strenuamente fino al 2008, animati dall’intenzione di segnalare le nuove e migliori voci della poesia dialettale nazionale), riconosce in questo poemetto «momenti di alta elegia, echi di una tradizione lirica che ha pur dato la poesia di un De Titta, un Clemente, un Dommarco, e che qui si rinnova in una meditazione assorta, distaccata, anche se non esente da quella lieta dolcezza che sembra essere nel carattere di questi paesi e di queste genti».
Nel suo commiato in versi, Un sito per l’anima (Castelli, Andromeda, 2008), Giannangeli riprende i suoi temi più cari, dagli episodi di vita paesana (dei quali cerca di mettere a fuoco le valenze simboliche) alle riflessioni sul tempo e sui mondi da venire, sempre attento a «udire e percepire il flusso / e riflusso di altre onde che si sciolgono / al moto di altre vite / e in lento fiume tu ti senti scorrere / ora fioco ora con trasalimenti / che qui ti si rivelano memoria / lì prefazi di rigenerazione». Più sensibile al presentimento che alla visione, il poeta non rinuncia ad auscultare i battiti del sentire universale né a restituire il senso dell’assoluto (o “timor panico”) nella rappresentazione di storie minime, in ritratti schiettamente popolari. Pur se Raiano resta, in modo più o meno dichiarato, tra i suoi principali motivi d’ispirazione, in quanto luogo della memoria, si sbaglierebbe a considerare “provinciale” la poesia giannangeliana, e lo spiega bene Giorgio Bàrberi Squarotti nella prefazione all’Antologia poetica (1985) dedicata al poeta dal Comune di Raiano: «Raiano è, sì allora, il centro del mondo poetico di Giannangeli, ma perché il luogo dove il canto può alzarsi sicuro e chiaro nella solitudine del paesaggio e in mezzo a una cordialità affettuosa di case e abitudini e tradizioni, e di lì arrivare all’ultimo segreto dell’esistenza, al significato delle cose, delle vicende, degli eventi». Il canto si alza infatti, chiaro e sicuro, a celebrare una fede non soltanto nelle possibilità linguistiche e comunicative della poesia ma anche nell’appartenenza a un territorio, alla sua storia, alla sua comunità.
Nel 2017, lo stesso anno della sua scomparsa, Ottaviano Giannangeli pubblica, per l’editore Verdone di Castelli, la sua opera omnia in cui raccoglie oltre settant’anni di poesia; il titolo, Quando vivevo sulla terra, racconta molto della condizione di estraniamento del poeta dal contesto più terreno e la prospettiva di altri mondi che attendono l’uomo al confine della vita. Una sfida intellettuale, quella di Giannangeli, condotta audacemente sino all’ultimo.
Andrea Giampietro
Ti ringrazio, caro Sergio, per il bel ricordo del tuo amato cugino e per le parole eccessivamente generose che mi riservi. Spero di esser stato in grado di testimoniare il valore dell’esperienza umana ed artistica di un uomo come Giannangeli a cui devo molto… a cui tutti dobbiamo qualcosa.
Grazie, Andrea
Ricordo del grande e mai dimenticato Ottaviano Giannangeli, uomo poliedrico di grande cultura, poeta e scrittore peligno, che preferì restare ancorato alle sue radici, alla sua Raiano, paese natio ed al comprensorio peligno. Ha scritto molto, durante la sua lunga vita ,conclusai a 94 anni. Saggi, poesie, romanzi. Fu anche docente universitari a Pescara, di Italiano, stimato e sempre ricordato dai suoi colleghi ed alunni. Poteva andare a cercare maggior gloria, come fanno tanti “artisti” di calamaio e pennello, ma preferì restare tra noi , tra la sua gente, scrivendone usi e costumi e spaziando or quinci or quindi. Adrea Giampietro , da par suo ne racconta la vita di poeta e scrittore e quant’altro, con impegno e competenza. Non per niente gli affidò, quando ancora in vita, di riordinare le “sue sudate carte”, un lavoro impegnativo ed oserei dire gravoso per l’abbondanza della produzione tutta da scoprire. Un dovuto ringraziamneto per quello che fa, ad Andrea.