CASO MANATTHAN, LA CASSAZIONE ANNULLA LA SENTENZA DI ASSOLUZIONE DI GESTORE E FACTOTUM
Dopo la richiesta di assoluzione in primo grado da parte del Pubblico Ministero, l’assoluzione in primo e in secondo grado, la Corte Suprema di Cassazione ha annullato la assoluzione di Maurizio Zaccardi, del 1963, e Rossella Testa, del 1965, dal reato di estorsione ai danni di due dipendenti della “Manhattan srl”, che gestisce un hotel nei pressi degli impianti sportivi dell’Incoronata. A ricorrere alla Corte di Cassazione sono stati Giovanna Lattanzio, del 1978, e Bruno Trinchini, del 1967, costituiti parti civili dopo la denuncia che presentarono il 14 febbraio del 2013. Una prima avvisaglia dell’esito positivo per loro si è vista, dopo tanti anni nei quali sia i pubblici ministeri che i giudici avevano escluso la ricorrenza del reato di estorsione, dalle conclusioni che l’ufficio del Procuratore Generale presso la Corte Suprema ha depositato il 29 settembre scorso. Come veniva chiesto nel ricorso delle parti civili, la Procura generale ha chiesto che la sentenza della Corte d’Appello venisse annullata e lo ha fatto direttamente riprendendo dalle considerazioni svolte nel ricorso promosso dalla parte civile: “come prospettato nel ricorso, la Corte territoriale non ha adeguatamente motivato sulla circostanza che le condotte degli imputati non potessero costituire una minaccia larvata di licenziamento a fronte delle specifiche censure proposte con l’atto di appello nelle quali si faceva riferimento a specifici elementi di prova non adeguatamente valutati dal giudice di primo grado”. Il Pubblico Ministero in Cassazione, al contrario di quelli del tribunale e della Corte d’Appello, ritiene dunque che la prospettazione della perdita del posto di lavoro in una discussione di carattere economico tra il datore di lavoro e i dipendenti possa costituire una indebita pressione, al punto da poter configurare il reato di estorsione, che era stato contestato, insieme a quello di omesso versamento di contributi previdenziali (per il quale non è stato proposto ricorso); e, concludendo la requisitoria scritta, deduce che “l’omessa valutazione di tali elementi inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione”. La Corte, all’udienza del 29 ottobre, ha così annullato la sentenza depositata il 19 settembre 2019 dalla Corte d’Appello dell’Aquila. Siccome la Procura Generale presso la Corte d’Appello non ha impugnato la sentenza di due anni fa, gli imputati non potranno essere processati sotto il profilo penale, ma il giudizio proseguirà in sede civile, ove Lattanzio e Trinchini chiederanno il ristoro dei danni subiti per la condotta degli imputati. Nel capo di imputazione si attribuivano ai due “ripetute ed inequivocabili minacce di licenziamento non altrimenti giustificabili e con la prospettazione della difficoltà di reperire, in un periodo di grave crisi economica, una diversa occupazione lavorativa” avrebbero costretto i due lavoratori “ad accettare condizioni di lavoro e corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate contrari alla legge e ai contratti collettivi”.