LA SOLITUDINE: NEMESI DI UNA GENERAZIONE
di Alessandro Lavalle L’essere umano è, da dizionario, l’animale sociale per antonomasia: troviamo pace, conforto e autoglorificazione nell’avere un numero sempre maggiore di compagni che orbitano attorno a noi; il gruppo ideale per ogni singolo individuo si comporrebbe di persone che passivamente venerano la nostra persona quale che sia l’azione o il verbo da noi donato a loro. La vita però rema in direzione completamente opposta ai nostri desideri. Giacché ogni persona immagina una realtà del genere, la sovrabbondanza di competizione rende impossibile il realizzarsi di questa esotica utopia: non si può fare altro che scendere a compromessi. L’arte del “piegarsi senza spezzarsi” è un’abilità tanto rara quanto ardua da perfezionare se non soltanto imbrigliare, il che può suonare alquanto illogico: come può una cosa tanto essenziale alla sopravvivenza del nostro smisurato ego essere tanto inarrivabile per la maggior parte di noi? Questa iper-socialità è veramente divenuta il morbo nel nuovo millennio? Com’è possibile che questa era della globalizzazione sia quella in cui ci sentiamo più soli? Tutto parte dalla domanda zero: perché ripudiamo tanto la solitudine? Capita di sentirsi persi stando soli, perché ci troviamo con l’ultima cosa con cui vorremmo avere a che fare: noi stessi. Quando ci si trova assieme ad altri si tende, almeno nella maggior parte dei casi, ad avere un comportamento diverso, quasi si creasse una seconda personalità atta a facilitare le interazioni uomo-uomo: la “personalità sociale”, che funge da maschera a quello che definisco come il “vero io”, ovverosia la nostra essenza senza filtri. Le due personalità combattono per la supremazia a seconda del tempo che la persona tende a trascorrere assieme ad altre persone, di solito superficiali e remissive a risolvere qualsivoglia problema; se riceviamo un feedback ampiamente positivo grazie
alla personalità sociale, convinciamo noi stessi che essa è il nostro vero io; di conseguenza: quando si sta da soli, non avendo motivo di sfoderare la personalità sociale, rimaniamo in compagnia dell’ex-vero io, ormai solo uno spettro che, specie nella mente dei più insicuri di noi, ci tormenta per le nostre decisioni e azioni guidate dal precario istinto della personalità sociale. Questo conduce o ad una totale chiusura in se stessi o ad una eccessiva ricerca di socialità; entrambi segnali di una fortissima insicurezza e mancanza di un carattere ben formato (sintomi che si manifestano specialmente, ma non esclusivamente, nell’adolescenza). Sviluppiamo, quindi, una tale paura per il vero io che ci rende terrorizzati all’idea di stare da soli,
poiché da soli nessuno è lì a darci approvazione per il nostro comportamento, motivo per cui la personalità sociale riscuote un così ampio e schiacciante successo. Così stando le cose, si possono ipotizzare tre reazioni a questo “sdoppiamento della personalità”. 1) Si può accettare la personalità sociale come dominante e seppellire definitivamente il vero io. Tradotto in termini reali significherebbe sacrificare la propria persona per una vita che poggia unicamente sul consenso delle masse, una vita superficiale ed estremamente volatile che, se manca di quella sostanziale dose di fortuna, distrugge l’individuo in maniera irreversibile ed impedisce una ripresa di coscienza totale. 2) Si può accettare il vero io e seppellire la personalità sociale. Non tutti sono nati col raro dono del
carisma, situazione in cui il vero io funge automaticamente da personalità sociale (il che è ideale), quindi a volte il vero io presenta degli spigoli, punte problematiche che causano non poche noie alla maggioranza delle persone che s’incontrano; tuttavia, se si è in possesso di una personalità estremamente forte e ben costruita, si potrebbe anche rinunciare quasi completamente alle interazioni sociali non essenziali, accettare quindi di stare da soli e quindi, di bastare a noi stessi: una mossa rischiosa ma che merita assoluto rispetto. 3) Si può relegare la personalità sociale a “personalità di facciata” e mantenere ben saldo al timone il vero io. Tutti abbiamo bisogno di interazioni sociali: è uno dei bisogni basilari dell’essere umano; essenziale come mangiare o dormire, forse anche di più, considerati i tempi e le nuove dinamiche sociali fluide e superficiali; il nostro vero io non sempre è ben gradito dalle compagnie che spesso si
incontrano lungo la strada e celarlo agli estranei per raffinarlo in attesa di persone capaci di vedere oltre la personalità di facciata è forse il compromesso più difficile ma più efficace: permette di creare basi solide e spianare la strada per costruire una personalità forte che trascina gli altri invece
di farsi trascinare. Si vede bene, invero, come si tratti di una semplice scelta, che però, perché sia effettiva e consapevole, presuppone una determinante condizione: una personalità sufficientemente forte per sopportarne le eventuali conseguenze negative. Arriva il momento in cui fare questa scelta che, nella maggior parte dei casi, coincide con la metamorfosi adolescenziale; essendo questo periodo di crescita differente per ogni individuo, la condizione determinante può essere più o meno ardua da raggiungere, ma non è qualcosa che ha a che fare solo con l’età: c’è chi questa meta la vede di fronte a sé, chi da tempo l’ha già superata e chi invece forse non la raggiungerà mai. Una volta raggiunta questa “linea di partenza”, si può procedere alla scelta, che, in tempi come questi, rappresenta uno dei pochi punti fermi della frenetica “società iper-sociale” in cui viviamo; una scelta che può fare la differenza tra un Uomo e un uomo.