LA ROVINA DELLA CASA DEI SANGRO, ANVERSA LUOGO DEL TEATRO DANNUNZIANO
Se “La figlia di Iorio” è ambientata in un Abruzzo atemporale, dove prevalgono vaghi riferimenti geografici («… Buon crocifero, ti priego,/ se passi pel vallone di San Biagio,/ per la contrada detta l’Acquanova») e il tempo è solo quello scandito dal calendario cristiano («E domani è San Giovanni,/ fratel caro; è San Giovanni»), “La fiaccola sotto il moggio” ha invece delle solide basi spazio-temporali. La sua ambientazione, infatti, è precisata dall’autore sin dalla didascalia d’apertura: «Nel paese peligno, dentro dal tenitorio di Anversa, presso le gole del Sagittario, la vigilia della Pentecoste, al tempo del Re Borbone Ferdinando I». Gabriele D’Annunzio passa per Anversa il 19 settembre 1896, in occasione d’una gita a cavallo, in cui è accompagnato, oltre che dal fedelissimo Michetti, dalla sua amante del tempo, Maria Gravina, dal suo traduttore francese, George Hérelle, dallo storico dell’arte Émile Bertaux, e dall’avvocato-fotografo Olinto Cipollone. A Sulmona, sempre in quei giorni, egli ritrova Antonio De Nino, lo studioso e archeologo pratolano che sarà una fonte preziosa per la stesura delle sue tragedie, grazie alle ricerche sul folklore raccolte nei sei volumi di “Usi e costumi abruzzesi” (editi a Firenze da Barbèra tra il 1879 e il 1897). Proprio a De Nino si rivolge quando decide di ambientare la “Fiaccola” ad Anversa. Come D’Annunzio stesso annota, tra le cose che lo colpiscono di quel paesino ci sono gli «avanzi d’un castello» e «il Sagittario, il fiume spumoso» (Gabriele D’Annunzio, “Taccuini”, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Mondadori, 1965, p. 136). Ecco dunque la contrapposizione – o coincidenza – della decadenza di quanto è costruito dall’uomo, da un lato, e del procedere inarrestabile della natura, dall’altro. Il poeta viene a sapere che tra le storiche famiglie anversane c’è quella dei Sangro; scrive subito a De Nino che lo rifornisce di notizie, e arriva a contattare il sindaco di Anversa «per sapere se tra le pietre vi sia lo stemma gentilizio della famiglia», ma un certo signor Di Giusto gli «risponde che non si trova» (G. Gabrielli, “Il Quartetto Abruzzese”, in “Rivista abruzzese”, a. XXIX, fasc. XI, nov. 1914). Oltre alle informazioni storiche, D’Annunzio si rivolge a un “vangelo” di notizie toponomastiche: “Guida dell’Abruzzo” di Enrico Abbate (Roma, Club Alpino Italiano, 1903), da cui sembra tradurre in versi alcune informazioni geografiche. A tal proposito, il critico Umberto Russo mette a confronto la guida turistica e la tragedia dannunziana, trovandovi smaccate analogie. Ad esempio, la battuta del Serparo: «… O Edia, quando porti/ le serpi al Santuario,/ scendi per la Pezzana e pel Casale/ fino ad Anversa…», riprende fedelmente una descrizione di Abbate: «Da Cocullo una via carrozzabile […], nella piccola e stretta vallata del rio Pezzana, affluente del Sagittario, passando per alcuni fabbricati, detti il Casale, conduce […] ad Anversa» (U. Russo, “De Nino, Michetti e la tragedia dannunziana”, in AA.VV., “La fiaccola sotto il moggio/ Atti del IX Convegno Internazionale di studi dannunziani/ Pescara-Cocullo, 7-9 maggio 1987”, Pescara, Tipolitografia G. Fabiani, 1987, p. 155). Il disfacimento della magione dei Sangro, evidente sin dall’inizio della tragedia – la matriarca, Donna Aldegrina, esordisce rivolgendosi alla nutrice: «Annabella, Annabella,/ non senti come tremano le mura?/ Che è mai questa romba?/ La casa crolla?» -, diventa l’emblema della decadenza morale della famiglia. Ottaviano Giannangeli, nel suo illuminante studio “La casa che crolla nella ‘Fiaccola sotto il moggio’” (pubblicato dapprima in AA.VV., “La fiaccola sotto il moggio/ Atti del IX Convegno…”, op. cit., e successivamente in O. Giannangeli, “D’Annunzio e l’Abruzzo/ Storia un rapporto esistenziale e letterario”, Chieti, Solfanelli, 1988), riconosce nella “Fiaccola”, più che una «seconda tragedia abruzzese», un «terzo episodio del ciclo della casa paterna», in cui l’autore continua il discorso di smembramento familiare iniziato nel “Trionfo della morte” (1891) e poi sviluppato nelle “Vergini delle rocce” (1896). Eppure, nella “Figlia di Iorio”, pur mancando la distruzione materiale del luogo domestico, è lo stesso simulacro della famiglia a scomporsi, e, nell’atto del parricidio perpetrato da Aligi, vediamo la tragica risoluzione del destino edipico. (Il padre della “Fiaccola”, ugualmente colpevole, è condannato a una patetica autodistruzione.) Appare chiaro come in Gigliola si ritrovino, perfettamente fuse, la «vocazione della morte» di Mila di Codra e la “càritas” di Ornella. La fragilità e l’estraniamento di Simonetto sembrano nascere dalle costole del figlio di Candia della Leonessa, laddove il lunghissimo sonno («… dormii settecent’anni,/ settecent’anni; e vengo di lontano./ Non mi ricordo più della mia culla») si tramuta in un male fisico che, inevitabilmente, danneggia lo spirito. Attento com’era alla cultura internazionale, e soprattutto alla corrente del decadentismo, D’Annunzio avrà certamente tenuto presente, per la sua tragedia, il famoso racconto di Edgar Alla Poe, “La rovina della casa degli Usher” (1839), dove è la stessa magione a generare l’avvilimento dei suoi abitanti: «Appresi anche […] un altro strano aspetto della sua situazione morale. Si sentiva incatenato a impressioni superstiziose – riguardanti la sua dimora, dalla quale non osava uscire da molti anni – riguardanti un influsso […] ch’erano riusciti ad ottenere su di lui, per via di lunghe sofferenze, talune caratteristiche della forma e della materia stessa della dimora avita; un influsso esercitato a poco a poco, sulla sua esistenza “morale”, dal “fisico” delle torri e dei muri grigi e della nera palude che li rifletteva» (E.A. Poe, “Opere scelte”, Mondadori/Meridiani, 2006, pp. 269-70). Ugualmente Gigliola rivela un’intima consunzione, come la materia della sua casa: «… Ho conosciuto/ il deperire lento,/ granello per granello,/ respirando la polvere/ delle cose consunte». Ma se la casa dei Sangro è finita in macerie, Anversa resiste ancora, «quasce arragnate mpette alla muntagne», per adoprare un verso di Giannangeli, e sarebbe ancora in grado di fornire ispirazione all’estro di un felice poeta. Lo storico anversano Armando Milonis scrisse: «Il più grande dono ricevuto da Anversa è stato fatto da Gabriele D’Annunzio con la tragedia “La fiaccola sotto il moggio”». O fu D’Annunzio a ricevere dal paese col Castello normanno il suo migliore dono…?
Andrea Giampietro